Le interviste di Pramzanblog: Mario Lanfranchi

Le interviste di Pramzanblog: Mario Lanfranchi

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QUESTA È LA MIA VITA
Dici Mario Lanfranchi e dici tutto: storia della televisione italiana, del cinema, dell’opera lirica, del teatro, del collezionismo di opere d’arte, delle corse dei cavalli e di quelle dei levrieri. Dici Mario Lanfranchi e la memoria ti corre ad Anna Moffo, il soprano italo-americano (ma americanissima dentro) che fu sua moglie per 16 anni. Dici Mario Lanfranchi ed entri in un mondo un po’ retrò (ma non per questo sgradevole) dove lo stile di un gentleman inglese in salsa parmigiana fa rima con il bello, il sapere, il buongusto, l’ironia, dove un signore avanti con gli anni ma non con lo spirito, vive in una villa-castello del tardo Cinquecento (a Santa Maria del Piano, frazione di Lesignano Bagni) con il principale obiettivo quotidiano di non avere fastidi. Per riuscire a intervistarlo ho dovuto corteggiarlo come si fa con una bella donna, spiegandogli che gli avrei portato via un po’ del suo tempo prezioso, non per creargli uno dei quotidiani fastidi che aborrisce, ma per incastrarlo come tassello prezioso nel mosaico della parmigianità che sto costruendo. Forse è stato questo il modo con cui ho convinto questo “grande” di Parma, che ha vissuto a Londra, a Roma, a Milano, a New York e che ha deciso di vivere l’ultimo atto della sua vita terrena da signorotto di campagna, nella sua villa-castello con venti stanze e giardino all’italiana, a concedere l’intervista a Pramzanblog, una piacevolissima chiacchierata che avrei protratto per ore. Eccola.Come preferisce essere chiamato?
Be’, molti mi chiamano maestro. Chissà, in questo ambiente usa. È maestro il cantante lirico, è maestro il regista. Ecco, io sono un regista e molti mi chiamano maestro. Ma lei può chiamarmi semplicemente Lanfranchi.
Come trascorre la sua vita nella sua straordinaria villa-castello, come principe d’altri tempi?
Io non ho molto in comune con certi nobili, in Italia e all’estero, che affittano le loro ville, o parte delle stesse, per feste, banchetti, visite guidate… No, a me piace stare qui a godermi la bellezza e l’incanto di questi luoghi sereni, fare una cavalcatina ogni tanto, dedicarmi all’emozione delle mie collezioni, come quella attuale dei film, con la quale riscopro film anche rarissimi, è un grande piacere…
Come li trova, li compra su Ebay?
No, sarebbe un fastidio insopportabile. Collegarmi, cercare, trattare… Li compro da chi li trova su Ebay…

Lei si considera un dandy, un esteta?
Non ho la presunzione dell’estetica o dell’eleganza. Cerco di investire il tempo che mi rimane nelle sole cose che veramente mi emozionano. Come i film, appunto. I film mi danno tutto questo. Molto più dei libri, che pure ho molto amato.
Vive in una dimora enorme… Non mi dica che si sobbarca il fastidio di gestirla da solo…
Per carità. Ho le pie donne che pensano a questo… La prima è l’ormai mitica Tina. L’ho conosciuta che era ancora una bambina. È una presenza preziosa nella mia vita. Pensi che da tempo mi sono privato anche del fastidio di leggere i giornali. Le notizie me le dà lei ogni giorno, alle cinque del pomeriggio.
La immagino mangiare da solo, davanti a un lungo tavolo antico, con un maggiordomo, oppure la mitica Tina, che le porta i cibi…
Immagina sbagliato. Io mangio in piedi. Rigorosamente in piedi.
In piedi? Come mai?
Da quando vidi Mosè mangiare in piedi un piatto di rigatoni. Fu una specie di apparizione. Un’emozione unica. Ero a Cinecittà e all’orribile mensa di allora di Cinecittà vidi un torreggiante Charlton Heston (era alto due metri) vestito da Mosè (stavano girando “I dieci comandamenti”) che mangiava, appunto, in piedi. Lo conoscevo e lo invitai al mio tavolo. Ma lui mi disse che era sua abitudine mangiare in piedi perché stare seduto a tavola era una perdita di tempo e perché, anche, veniva favorita la digestione. Quelle parole dette da Mosè lì, alla mensa di Cinecittà, mi cambiarono la vita. Da quel momento ho sempre mangiato in piedi. Eppure qualche tempo dopo…

Che cosa accadde qualche tempo dopo?
Accadde che a New York, credo, rividi Charlton in un ristorante, comodamente seduto a tavola con amici. Gli chiesi una spiegazione. “Ma tu non sei quello che mangia in piedi?”. Si mise a ridere. “Ah, già, quella volta che mi hai visto mangiare in piedi vestito da Mosè… Ah, ah, scherzavo”. Rimasi basito. “Ma come, Charlton… Ma tu non lo sai che mi hai cambiato la vita?”.
Facciamo un passo, anzi due, indietro. La sua infanzia negli anni Trenta. Che cosa ricorda della Parma di allora?
Andiamo indietro, eh? Elementari alla San Marcellino, poi un anno al Romagnosi e infine al Maria Luigia. Mio padre era presidente del consiglio del Maria Luigia ed era contrario, ma io soffrivo molto perché tutti i miei amici erano là. Feci di tutto per farmi togliere dal Romagnosi. Facevo per esempio le rime in latino maccheronico. Mi ricordo che un giorno il professore di latino, Bartoli, arrivò a dirmi “Io ti odio”. Comunque riuscii a passare al Maria Luigia… Tra gli insegnanti avevo Attilio Bertolucci.
Il periodo della guerra: come l’ha vissuto?
Ricordo il terrore dei bombardamenti del ’44. Dopo lo spavento i miei, per prudenza, mi mandarono a Milano a casa di un’amica. Ma mi beccai un devastante bombardamento pure lì…

Come è nata la passione per il teatro?
Mio padre era Sovrintendente del Teatro Regio. Fu in casa che assorbii il morbo del teatro. Papà mi aveva trovato un posto alla Montedison, ma ormai la mia scelta l’avevo fatta. Con un patto: Accademia e Università. Insieme. La prediletta Accademia dei Filodrammatici, a Milano, e l’odiata Università (giurisprudenza) sempre a Milano.
Visto che fu chiamato da Sergio Pugliese alla Rai, si considera tra i “padri” della Tv italiana?
Questo lo dice lei… Comunque, sì, è vero, Pugliese mi chiamò perché mi conosceva, visto che venivamo entrambi dal teatro di prosa. In effetti fu io a spingere per portare l’opera in Tv. Fu un grande successo.
Nel ’56 portò in Tv la “Butterfly” con Anna Moffo. La conobbe lì?
L’opera andò in onda all’inizio del 1956, ma tutto andò in porto, ovviamente, l’anno prima. A Spoleto mi parlarono di una ragazzotta americana di genitori italiani, Anna appunto, che era brava e che era in Italia per aver vinto la borsa di studio Fullbright. La vidi a un saggio, con un parruccone enorme in testa che mi disgustò. Scappai. Allora puntai su una serie di audizioni. A un certo punto mi trovai davanti questa cantante eccezionalmente bella, molto brava e trasecolai: era quella del parruccone. Cantava meravigliosamente. La scritturai. E fu la prima Butterfly della Tv italiana. Poi diventò mia moglie.

Fu un grande amore: che cosa ricorda della Moffo?
Anna era una donna di rara bellezza e con lei ho vissuto una lunga storia d’amore. Che mi è anche costata, ma con piacere. Faccio un esempio: io avevo deciso di tentare la strada della regia cinematografica e così nel 1960 mi trasferii, con Anna, a Roma. Abitavamo in una bellissima casa davanti al Palatino. Ero circondato da opere d’arte moderna, la mia grande passione di allora. Lei cominciò a dire: “Qui siamo un po’ stretti”. Allora la accontentai e andammo a vivere a Palazzo del Grillo.
Lo storico palazzo del marchese del Grillo?
Esatto. Lo storico palazzo del Marchese del Grillo. Ambienti solenni, enormi, soffitti affrescati. Un gioiello. Quando Anna vide per la prima volta la nuova dimora si mise a piangere dalla felicità. “Ecco Mario, questa è la mia casa”, mi disse. Io avevo quella collezione d’arte moderna che stonava un po’ in quegli ambienti sontuosi, ricchi di storia. E così me ne privai. Per amore di mia moglie, che era felice di vivere lì, me ne privai.
Acquistò quella dimora a Palazzo del Grillo?
No, non era in vendita. Ma rimanemmo in affitto lì per quindici anni.
Perché divorziò, nel 1974, da Anna?
Perché lei voleva far gravitare la sua carriera sull’America. Era sempre rimasta fondamentalmente “americana”. Ma io ormai in Italia avevo impegni ai quali non potevo più rinunciare, come, per esempio, una casa di produzione in società con Sandro Bolchi. Così andò a finire che, ancora sposati, lei andò a vivere negli Stati Uniti e io rimasi a Roma. Fu il preludio al divorzio.
Lei è stato un cosmopolita: ha vissuto a Milano, Roma, New York, Londra: quale di queste città ha amato di più?
In un modo o nell’altro, tutte. Ma Londra in particolare, dove sono stato vent’anni. E ho sempre nel cuore la Milano della mia giovinezza. Era la Milano del dopoguerra, della riapertura alla vita, della ricostruzione, del fermento culturale…
Lei con Sandro Bolchi ha anche prodotto, oltre a storici “Caroselli”, romanzi sceneggiati, film, spettacoli teatrali, anche il ciclo “Tutto Totò”…
Sì, fu un grande successo. Il principe De Curtis, così si chiamava, in quel periodo aveva dei problemi con il fisco e non poteva lavorare in film prodotti dalla Rai perché il fisco gli avrebbe sequestrato gli introiti alla fonte. Allora, al corrente della situazione, decidemmo di produrre noi una serie di dieci film, che poi la Rai mandò in onda.

Due grandi passioni: i cavalli e i levrieri da corsa e il collezionismo. Con i cavalli, soprattutto nel trotto, ha vinto le più grandi corse. E con i levrieri ha avuto un campionissimo, “El Tenor”…
Sì, grandi passioni. Che mi hanno anche dato grandissime soddisfazioni. Ho vinto molto con i miei cavalli, ho vinto molto con i miei levrieri, in particolare El Tenor, che vinse ben 102 Gran Premi.
Opere d’arte antica che sono state sue ora si trovano a Brera, alla Galleria nazionale dell’Umbria, al Metropolitan di New York.
Sì. Dopo aver venduto la mia collezione d’arte moderna mi ero buttato su quell’antica. Avevo opere molto belle. Ma il primo acquisto fu una bufala.
Che cosa accadde?

Accadde che gli eredi dell’ex Cancelliere tedesco Konrad Adenauer avevano messo in vendita la sua collezione di quadri a un’asta a Lucerna. Io non volli andare sprovveduto a quell’asta. Mi preparai con attenzione. Quando fui là riuscii ad aggiudicarmi, della collezione Adenauer, un quadro favoloso, attribuito a Bernardo Daddi. Tornai in Italia trionfante. Lo dissi Urbi et Orbi. E mandai una fotografia del quadro a Federico Zeri, il grande critico. Lui non era abituato a fare expertise e non rispondeva a lettere come la mia. Ma nel mio caso fece uno strappo. Mi rivelò che quel quadro era uno “spurgo antiquariale”. Insomma, un falso colossale. Una crosta. Bellissima, ma una crosta. Poi divenni molto amico di Zeri.

Lei ha anche una gran biblioteca…
Potrebbe essere più grande se un mio antenato, che si chiamava Luigi Balestra, non avesse lasciato in eredità i suoi straordinari libri alla Biblioteca di Busseto. E lì, infatti, c’è la Sala Balestra. Una rabbia… Lo sa che nella mia dimora tengo appeso un suo ritratto proprio perché, quando ci passo davanti, posso maledirlo? Una rabbia mi fa venire, mi fa…
Che cos’è per lei la parmigianità?
Lo spirito parmigiano. Quella specie di scintilla, quel fervore che ti esplode all’interno, quel qualcosa che riesce a darti nei rapporti umani qualcosa di più. Parmigianità è generosità, è colore, è tutto. Io ho girato molto nella mia vita , ma Parma l’ho sempre portata con me, nel cuore.

Nella sua villa non ammette visitatori paganti, però, una volta all’anno, apre i cancelli…
Sì, per gli “Spettacoli in villa”. Anch’io recito qualcosa, rispolverando il mio passato d’attore… Cominciò tutto con “Villa Lanfranchi apre i cancelli”. Doveva essere uno strappo alle mie abitudini, un “numero unico”. Invece… Comunque sono contento.
Però ne ha di tempo per godersi la sua pace. Magari con qualche cavalcatina nel suo giardino privato, quello dove può accedere soltanto lei…
Be’, l’amore per i cavalli non mi è mai passato, ma… Lo sa quel detto, vero, “Bacco, Tabacco e Venere”? Be’, alla mia età lo devo trasformare in “Bacco, Tabacco e Femore”. Se mi rompessi un femore sarebbe un fastidio, ma un fastidio…

Achille Mezzadri
(Nelle foto, dall’alto: 1) Mario Lanfranchi; 2) Mario Lanfranchi mentre recita; 3) Villa Lanfranchi a Santa Maria del Piano; 4) Lanfranchi con la moglie Anna Moffo; 5) Palazzo del Grillo, a Roma, dove Lanfranchi abitò 15 anni con la Moffo; 6) Lanfranchi in una foto giovanile; 7) e 8) Due primi piani mentre recita / Le foto 1), 2), 7) e 8) sono di Luca Venturini © e sono tratte dal sito dell’Associazione Culturale “Accademia degli Incogniti” di Langhirano che organizza il Festival di Torrechiara)